Bye bye Pizzahut: dovremo dirgli addio davvero?

L’emergenza Coronavirus si è fatta sentire non solo in Italia – provocando vari problemi al settore della ristorazione – ma anche nel resto del mondo, Stati Uniti inclusi. Ed è proprio dal Paese “a stelle e strisce” che arriva una notizia piuttosto sorprendente: anche Pizza Hut sarebbe a rischio, a causa del fallimento del maggior licenziatario della più nota catena di pizze al mondo. Scopriamo qualcosa in più!

Le conseguenze del Covid-19 sull’economia

Bisogna innanzitutto sgomberare il campo da alcune notizie erronee riportate dalla stampa in questi giorni: Pizza Hut non è fallita, o per lo meno non ancora. Il dramma finanziario riguarda Npc International, la società che gestisce più di 1.200 punti vendita del brand negli Stati Uniti e quasi 400 ristoranti della catena Wendy’s, che ha richiesto l’accesso al famoso Chapter 11 della legge fallimentare americana, che consente alle imprese una ristrutturazione a seguito di un grave dissesto finanziario.

Cosa sta succedendo a Pizza Hut?

La Npc International ha aperto il suo primo Pizza Hut nel 1962, a distanza di quattro anni dalla creazione del primo punto vendita della compagnia (inaugurato nel giugno del 1958 a Wichita, in Kansas, dai fratelli Dan e Frank Carney), e attualmente gestisce all’incirca il 10 per cento di tutti i ristoranti Pizza Hut al mondo – che sono appunto oltre 12mila – e dà lavoro a 40mila dipendenti.

Gli effetti del lockdown per il Coronavirus sono stati il colpo definitivo per le sorti di Npc, che già da anni registrava vistosi cali delle vendite: negli ultimi mesi sono aumentati infatti i costi di manodopera e materie prime, e il risultato finale è che la compagnia ha accumulato circa 1 miliardo di dollari di debito, situazione divenuta insostenibile per assicurare il prosieguo regolare delle attività.

Ad ogni modo, grazie al ricorso al Chapter 11 – che avvia la procedura di amministrazione controllata e una linea di negoziato con creditori – la Npc potrà tenere aperti tutti i ristoranti in gestione, limitando in qualche modo i danni.

BATH, UK – CIRCA SEPTEMBER 2016: Pizza Hut delivery storefront

Gli effetti sulla catena di pizze

Quindi è sbagliato dire che “il Coronavirus si mangia Pizza Hut” (come hanno scritto in modo ironico, e forse un po’ fuori luogo, diversi media italiani) perché non è la catena intera che sta fallendo, ma uno dei suoi anelli, per tener fede alla similitudine. Ovviamente, comunque, anche la compagnia principale – che fa capo attualmente a Yum! Brands, Inc. – rischia di subire un forte contraccolpo per questa crisi, che alcuni analisti arrivano a stimare addirittura in oltre 50 milioni di dollari.

Intanto, anche in Gran Bretagna l’insegna non vive un momento felice e sono diventate virali le immagini di diversi dipendenti di Pizza Hut scesi in strada a Londra per protestare contro il mancato pagamento degli ultimi stipendi.

La storia di Pizza Hut

C’è quindi un punto interrogativo sul futuro della catena di pizza italiana (o quasi…) più famosa al mondo, che vive uno dei momenti peggiori della sua storia, avviata come detto circa 60 anni fa grazie all’intuizione dei fratelli Carney, che si misero in attività grazie a un prestito di 600 dollari assicurato dalla loro mamma.

Grazie a questo investimento, lanciarono l’attività imprenditoriale con il partner John Bender e inaugurarono il primo ristorante Pizza Hut a Wichita, loro città di residenza, prendendo in affitto un piccolo edificio e acquistando attrezzature di seconda mano per fare le pizze.

Ma Pizza Hut si fece subito notare dai concittadini grazie anche a originali operazioni di marketing: nella notte di apertura, infatti, gli imprenditori pensarono di distribuire pizza gratis a tutti i clienti, conquistando immediatamente il loro favore. E così, in meno di un anno aprirono altri due ristoranti e avviarono, per primi, le consegne a domicilio di pizza.

Un percorso vincente ma travagliato

Alla base del progetto c’era un’idea semplice: servire agli americani la pizza come alimento da fast food e non nel classico scenario del ristorante con tavoli. Un po’ come Starbucks si è ispirato al concetto del caffè italiano per trasformarlo in un’esperienza diversa, così Pizza Hut ha fatto con il classico piatto napoletano, azzardando condimenti di ogni tipo.

Già nel 1977, dopo appena quindici anni di servizio, Pizza Hut contava 4mila ristoranti. Oggi ci sono oltre 12mila ristoranti Pizza Hut al mondo, distribuiti in oltre 110 Paesi (tranne Svizzera e Italia, dove il gruppo non ha mai tentato lo sbarco, forse timoroso della concorrenza delle pizzerie tradizionali…) e con alcuni primati: ad esempio, è stata la prima catena in franchising ad aprire in Iraq, seppur limitandosi a punti vendita all’interno delle basi americane.

In questo arco temporale, però, sono stati vari i riassesti societari: proprio nel 1977 i fratelli Carney cedettero le quote alla PepsiCo per più di 300 milioni di dollari, ma non lasciarono il mondo delle pizze e aprirono una nuova catena, Papa John’s. Nel 1997, a seguito di una scissione dall’azienda madre, il controllo passa a Yum! Brands – leader a livello mondiale nel fast food, proprietaria anche di altri brand come KFC (Kentucky Fried Chicken) e Taco Bell – che ha cercato di proseguire il percorso di crescita di Pizza Hut.

Tra le varie azioni messe in atto, ricordiamo ad esempio che Pizza Hut è stata tra le prime aziende ad aprire una pagina su Facebook o a lanciare una app per iPhone, e solo due anni fa è stata sponsor ufficiale della Nfl, il principale campionato di football degli Stati Uniti.

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