Uber eats chiude in Italia: cosa è successo sul serio?

Un fulmine a ciel sereno: lo scorso 15 giugno gli utenti italiani hanno ricevuto una mail firmata Uber Eats che, sin dall’oggetto, annunciava la cessazione del servizio sul territorio nazionale, prevista per il successivo 15 luglio. Ma perché Uber Eats chiude in Italia e a cosa si deve questa decisione? Proviamo a capire cosa è successo, quali sono le cause e quali le conseguenze, anche per i dipendenti dell’azienda.

Uber Eats dice addio all’Italia: i motivi della scelta

“Uber Eats dismette le operazioni in Italia”: si intitola così la nota ufficiale pubblicata sul sito della compagnia che chiarisce (in parte) la logica dietro alla scelta del gruppo americano, che ha avviato le sue attività in Italia nel 2016 con l’ambizione di conquistare un ruolo da leader nel settore del food delivery.

Sette anni dopo, possiamo dire che l’obiettivo è fallito e, come prosegue la nota, Uber Eats non è cresciuto “in linea con le aspettative per garantire un business sostenibile nel lungo periodo”, e quindi il CEO Dara Khosrowshahi ha deciso di interrompere le operazioni di consegna di cibo in Italia tramite l’app Uber Eats a partire dal 15 luglio 2023.

È opportuno sottolineare che questa mossa riguarda solo la divisione del food delivery, perché Uber conferma contestualmente l’impegno nei servizi di mobilità in Italia, dove sta invece registrando una crescita rilevante: grazie al servizio Uber Black e all’accordo con It Taxi, infatti, ad oggi il gruppo è presente in 10 città italiane, e negli ultimi 12 mesi “oltre un milione di italiani e turisti ha utilizzato l’app Uber per muoversi nelle città dove operiamo e quasi 10 mila autisti, tra NCC e taxi, hanno avuto la possibilità di realizzare almeno una corsa sempre attraverso la nostra app”. Inoltre, è sempre la stessa nota ad anticipare che Uber prevede di aumentare ulteriormente la presenza nel Paese (come dimostra anche il lancio del servizio Taxi in Sardegna di inizio giugno) e di “lanciare quattro nuove città entro la fine dell’anno”.

I numeri di Uber Eats in Italia

Nei sette anni di presenza in Italia, Uber Eats ha raggiunto oltre 60 città in tutte le regioni, lavorando con migliaia di ristoranti partner che hanno potuto beneficiare dei servizi per “ampliare la loro clientela e le loro opportunità di business, specie in periodi critici come quello dovuto al Covid”. L’azienda dice anche che “migliaia di corrieri e delivery partner hanno avuto la possibilità di guadagnare attraverso la nostra app in modo facile e immediato”, mentre dal punto di vista della diffusione alcuni insider hanno rivelato che circa 7mila ristoranti in tutta la penisola italiana consegnavano pasti tramite Uber Eats e che oltre il 35% dell’intera popolazione italiana ha scaricato l’app Uber Eats sul proprio smartphone.

Ciò nonostante, però, il gruppo americano non ha costruito una quota di mercato sufficiente a restare in linea con gli obiettivi strategici: secondo i dati pubblicati a fine 2022 dal portale Measurable.ai, Uber Eats non è mai riuscito a superare la soglia del 7% tra le scelte dei clienti di delivery, distante dalle quote di Deliveroo, Just East e Glovo, che restano i servizi preferiti dagli italiani per acquistare cibo da consumare a casa.

Uber Eats e l’Italia: un amore mai sbocciato del tutto

Scarsa diffusione presso il pubblico ed eccessiva competitività del settore per rendere remunerativo l’impegno: sono questi, in estrema sintesi, i motivi che hanno spinto Uber Eats al passo indietro dall’Italia, per concentrarsi su altri mercati europei e mondiali.

Stando a quanto riportato dai media, l’azienda intende infatti puntare esclusivamente sulle aree in cui ci sono effettive opportunità di crescita sostenibile, investendo più precisamente in mercati in cui può essere il più grande o al massimo secondo player.

Attualmente, Uber Eats ha avuto successo in Francia (dove è principale app di food delivery) e sta registrando una crescita notevole in Germania (oltre il 64% di ordini in più nel 2023), ma è in ritardo rispetto ai concorrenti nel Regno Unito e in Spagna, che rappresentano gli altri mercati più grandi dell’Europa occidentale. Le cose non vanno troppo bene neppure nell’area asiatica: sempre in queste ore, l’azienda ha detto addio a Israele (per il servizio taxi) e ha già venduto l’intera attività in Cina e in India.

Oltre ai problemi contestuali e alla presenza di forti competitor, in Italia Uber Eats ha vissuto anche vicende delicate rispetto alla contrattualizzazione dei rider. Ad esempio, nel 2020 la filiale nazionale è stata commissariata dal Tribunale di Milano con l’accusa di caporalato di rider attraverso alcune società intermediarie, e anche successivamente sono stati segnalati altri problemi con la gestione dei collaboratori.

A questo proposito, la chiusura del servizio in Italia porterà anche all’eliminazione di circa 40 posti di lavoro nel Paese, un conteggio che però non prende in considerazione i fattorini. L’azienda americana ha infatti avviato la procedura di licenziamento collettivo per tutti i dipendenti degli uffici, quasi tutti operativi nella sede di Milano, mentre i fattorini non sono inclusi in queste trattative, perché sono formalmente in regime di collaborazione autonoma a ritenuta d’acconto o in partita IVA, e pertanto sprovvisti di tutela dal licenziamento e di copertura sociale. Un aspetto che aggiunge il classico danno alla beffa.

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