Una vera e propria invasione, che al momento interessa soprattutto le acque del Nord e del Centro Italia, mettendo a repentaglio non soltanto le specie autoctone, ma anche l’economia locale basata sulla pesca. Protagonista di questo incubo è il cosiddetto granchio blu, crostaceo originario dei mari americani che però si sta adattando anche alle nostre latitudini, soppiantando spesso gli altri “abitanti” di queste aree.
Che cos’è il granchio blu
Il Callinectes sapidus, ormai per tutti semplicemente granchio blu, è una specie di granchio originaria delle acque dell’Atlantico occidentale, dal Canada al Sud America, facilmente riconoscibile per il suo guscio blu-verde e le chele azzurre. Nonostante il suo aspetto attraente, il granchio blu è diventato un problema significativo in alcune parti del mondo, tra cui l’Italia, dove è considerato una specie invasiva.
Questo crostaceo è infatti un animale onnivoro che può raggiungere un chilo di peso, per 15 centimetri di lunghezza e 25 di larghezza, ma soprattutto è capace di adattarsi a un’ampia gamma di condizioni, vivendo in acque con temperature comprese tra i 3 e i 35 gradi, e di trovarsi a suo agio sia nell’acqua dolce dei fiumi che in quella salmastra delle paludi.
Inoltre, il granchio blu è anche un predatore vorace che si nutre di una varietà di creature marine, tra cui vongole, cozze, crostacei, uova e pesci, in particolare gli avannotti, i pesci appena nati. Proprio questa dieta onnivora, combinata con la sua notevole capacità riproduttiva – le femmine possono deporre fino a 2 milioni di uova all’anno – lo rende un potenziale pericolo per gli ecosistemi in cui viene introdotto, come stiamo verificando in Italia nelle ultime settimane (anche se l’allarme parte da molto più lontano).
Da dove arriva il pericolo granchio blu
Questo ospite inaspettato che sta infestando i nostri mari (e le cronache) non è però del tutto “nuovo”: stando ad alcune ricostruzioni, infatti, la sua prima apparizione nelle acque italiane (o comunque in quelle del Mediterraneo) risale addirittura al lontano 1949.
Questo crostaceo dalle chele cangianti sarebbe giunto nelle nostre acque attraverso l’acqua di zavorra utilizzata dalle navi per stabilizzare la navigazione, e quindi la sua odierna proliferazione incontrollata nasce da un “errore” umano e dalla sottovalutazione del rischio biologico.
Nonostante la mancanza di monitoraggi o studi approfonditi sull’evoluzione del granchio blu nel Mediterraneo, una cosa è certa: questo intruso ha trovato il modo di adattarsi, crescere e moltiplicarsi a dismisura, arrivando a colonizzare le aree lagunari del Veneto e a stabilirsi stabilmente qui da una quindicina di anni fa, diventando piuttosto invadente e invasivo almeno dal 2007-2008.
Il granchio blu rappresenta pertanto un altro esempio di come le attività umane, in particolare il commercio internazionale, possano avere conseguenze inaspettate e potenzialmente devastanti sugli ecosistemi locali. Per le sue caratteristiche adattive, il crostaceo è riuscito a sopravvivere (e anzi a proliferare) anche a migliaia di chilometri di distanza dal suo habitat naturale, grazie soprattutto all’assenza di predatori naturali e alle condizioni ideali create dall’aumento della salinità e della temperatura dell’acqua (e quindi il discorso ricade ancora sugli effetti negativi dei cambiamenti climatici), che ormai raramente scendono sotto i 10 gradi Celsius.
Questo fenomeno di specie invasive non è nuovo e ricorda, ad esempio, la storia dei gatti in Australia, introdotti per controllare la popolazione di topi sulle navi, ma che poi hanno devastato numerose specie autoctone. O le nutrie, originarie dell’America meridionale e arrivate in Italia per errore, o ancora il pesce gatto, la sandra, il siluro o il pesce persico sole, introdotti per la pesca sportiva e poi diffusi a tal punto da mettere a rischio altre specie autoctone.
Perché è un rischio
Nel suo habitat originario, il granchio blu è una fonte di cibo fondamentale per una serie di predatori, tra cui anguille, razze, squali, persici nei fiumi e, naturalmente, gli esseri umani. Tuttavia, quando viene introdotto in nuovi ambienti, come è accaduto in diverse località lagunari d’Italia, l’assenza di predatori naturali e la sua voracità possono trasformarlo in una specie invasiva. Questo ha portato a gravi problemi, minacciando la produzione locale di vongole e alterando gli ecosistemi marini, con potenziali ripercussioni anche sulla gastronomia italiana.
Negli ultimi anni, in particolare, questo crostaceo è diventato una vera minaccia per la biodiversità locale: ad esempio, nelle lagune del Veneto la popolazione di granchi blu è passata da 87 chili nel 2019 a oltre 450 tonnellate nel 2023, e la femmina di questa specie può produrre fino a otto milioni di uova in una sola volta, contribuendo a un aumento ancora più rapido della popolazione.
La presenza del granchio blu ha avuto un impatto devastante sulla produzione di vongole e cozze, due pilastri dell’industria ittica locale: il governatore veneto Zaia ha rivelato che la produzione di vongole, che rappresenta quasi il 40% della produzione nazionale, è destinata a diminuire dell’80-90% a causa di questa specie invasiva. In particolare, gli allevamenti di vongole nel delta del Po sono stati duramente colpiti, con i granchi che hanno consumato fino al 90% delle giovani vongole, compromettendo la produzione futura.
Oltre alla produzione di vongole e cozze, il granchio blu ha anche influito negativamente sulla pesca di orate e anguille nella riserva naturale di Orbetello, perché questi crostacei sono in grado di strappare le reti da pesca e consumare i pesci, interrompendo il ciclo alimentare locale.
Le soluzioni proposte
Per affrontare l’invasione del granchio blu, il governo italiano ha stanziato 2,9 milioni di euro per incentivare la pesca di questa specie e contenere la sua popolazione. Nonostante gli sforzi, la popolazione di granchi blu non sembra diminuire significativamente, e alcuni pescatori affermano di catturare circa 12 tonnellate di granchi al giorno senza però notare un calo nella loro popolazione.
Un possibile “rimedio” a questa eccessiva diffusione sta proprio nella pesca ed è suggerito dallo stesso nome scientifico del crostaceo: Callinectes sapidus significa “nuotatore saporito” e in effetti il granchio blu è considerato una prelibatezza negli Stati Uniti, dove viene consumato al vapore, fritto in padella, come tortino di granchio o in zuppa.
Qui da noi siamo ancora agli albori dell’utilizzo alimentare di questa specie, perché la maggior parte dei granchi catturati non viene venduta per il consumo umano, e le associazioni di categoria come Coldiretti si stanno attivando per cercare di aumentare la domanda promuovendo il granchio blu come una novità gastronomica. In Toscana, quasi tutti i granchi pescati vengono venduti a ristoranti o supermercati, mentre una cooperativa di Orbetello vende i granchi a 8 euro al chilogrammo a privati o supermercati. Al ristorante, con 10 euro si possono acquistare quattro granchi alla griglia o linguine condite con salsa di granchi, pomodoro, cipolla, basilico e peperoncino.
Oltre all’uso alimentare, il granchio blu potrebbe avere un altro utilizzo potenziale: la produzione di biogas. La Coldiretti del Veneto ha infatti finanziato un progetto per utilizzare il granchio blu come combustibile per produrre biogas attraverso un processo chiamato biodigestione, che sfrutta la fermentazione batterica in assenza di ossigeno di sostanze organiche, come appunto i granchi blu, per produrre biogas. Un’azienda veneziana sta sperimentando questa tecnica, con l’obiettivo di produrre circa 200 kWh di elettricità da una tonnellata di granchio blu. Se questa sperimentazione fosse estesa solo a tutta la regione nordorientale, dicono, si potrebbero processare fino a 100 tonnellate di granchi al giorno, trasformando un problema ecologico in una potenziale fonte di energia rinnovabile.