Allungare il vino con l’acqua, l’Europa vuole davvero farlo?

Si potrebbe definirla “una tempesta in un bicchier d’acqua”, o in un calice di vino: negli ultimi giorni è rimbalzata praticamente ovunque la (presunta) notizia di una legge UE che avrebbe consentito di allungare il vino con l’acqua, allarmisticamente rilanciata da Coldiretti. In realtà, possiamo essere sicuri: non berremo vino annacquato e non ci sono imposizioni per i viticoltori, e quindi la bufera nasce da una proposta in discussione per consentire una commercializzazione dei prodotti alcolici (o meno alcolici) soprattutto fuori dall’Europa, e fa riferimento a una pratica legittima già da oltre dieci anni.

Vino annacquato, cosa sta succedendo in Europa

Iniziamo quindi dall’allarme lanciato da Coldiretti, che in un comunicato ripreso da tantissimi giornali (online e non solo) ha denunciato “l’ultima trovata di Bruxelles”, ovvero l’idea di “introdurre etichette allarmistiche per scoraggiare il consumo” di vino, attraverso “la pratica della dealcolazione parziale e totale dei vini”. In pratica, spiegano dall’associazione, la proposta (contenuta nella Comunicazione sul Piano d’azione per migliorare la salute dei cittadini europei) prevede la possibilità di autorizzare la pratica enologica di “eliminazione totale o parziale dell’alcol con la possibilità di aggiungere acqua anche nei vini a denominazione di origine”. Ovvero, creare bottiglie di vino annacquato, anche per etichette a marchio, in modo perfettamente legale.

Le reazioni in Italia

Apriti cielo: in pochissimo tempo c’è stata una levata di scudi a tutela del vino e delle produzioni enologiche italiane – uno dei vanti della nostra agricoltura, con produzione pari a circa 49 milioni di ettolitri, una quota di esportazione di vini fermi e spumanti di quasi 21 milioni di ettolitri e un valore complessivo di fatturato superiore a 11 miliardi in Italia e all’estero – e il presidente della stessa Coldiretti, Ettore Prandini, non aveva esitato a parlare di “inganno legalizzato per i consumatori, che si ritrovano a pagare l’acqua come il vino”.

Ancor più infuocate le parole di Domenico Bosco, responsabile vitivinicolo Coldiretti, che spiegava che “se passasse questa impostazione, un soggetto potrebbe comprare ad esempio una partita di Chianti Docg come di un altro vino a denominazione e poi annacquarlo nel proprio stabilimento per trasformarlo in Chianti dealcolato. Appare chiaro come un’ipotesi del genere aprirebbe vere e proprie praterie per frodi e contraffazioni”.

Immediata anche la reazione di Stefano Patuanelli, ministro delle Politiche agricole, alimentari e forestali, che aveva promesso un’azione di contrasto del Governo nazionale, perché “la discussione che si sta tenendo in Europa sulla possibilità di autorizzare nelle pratiche enologiche l’eliminazione totale o parziale dell’alcol con la possibilità di aggiungere acqua nei vini, anche quelli a denominazione di origine, contiene proposte che il nostro Paese non intende assecondare“.

Acqua e vino, una polemica esagerata?

Insomma, un vero e proprio caso politico internazionale (cavalcato anche in chiave anti-europeista), che però sembra basarsi su premesse sbagliate, o quanto meno esagerate: come hanno chiarito vari approfondimenti successivi – in particolare su Dissapore, The Post Internazionale e Linkiestanon c’è alcun Regolamento Europeo che consenta o obblighi ad annacquare il vino, ricordando inoltre che la dealcolazione è una pratica enologica consentita dal 2009.

Sul tema sono intervenuti anche alcuni esponenti dell’Unione Europea, che hanno smentito la notizia in esclusiva all’Agi, dicendo che “la proposta della Commissione europea non contiene alcun riferimento all’aggiunta di acqua nel vino per mantenere il volume iniziale di prodotto quando si vuole azzerare la gradazione per mettere in commercio vini senza alcol”.

Dealcolazione del vino, la discussione in UE

Ciò di cui si sta discutendo in ambito comunitario è la nuova Politica Agricola Comune (PAC) che andrà in vigore dal 2023, che si compone anche della cosiddetta Organizzazione comune dei mercati (CMO), un insieme di regole che interessano anche la commercializzazione e l’etichettatura dei prodotti agricoli.

Sulla spinta di alcuni Paesi – in particolare quelli del Nord Europa – nel nuovo CMO si sta valutando la possibilità di introdurre alcune norme che permetterebbero di estendere le etichette delle denominazioni di origine – come DOP e IGP – anche ai vini dealcolati, cioè quelli che durante il processo di produzione sono privati dell’alcol. Questa pratica si ottiene in vari modi, fra cui aumentando la quantità di acqua rispetto ai vini tradizionali, ed è consentita dal 2009 per i vini generici nella misura massima del 20% (con un contenuto in alcol dopo dealcolazione non inferiore ai 9 gradi).

Gli esperti spiegano che la parziale dealcolazione si è resa necessaria (anche) perché i cambiamenti climatici hanno progressivamente portato a concentrazioni sempre più elevate di alcol, mentre dall’altra parte si sono ampliate le preoccupazioni su dieta e salute in generale, che hanno portato alla diffusione delle bevande analcoliche. Inoltre, elemento non meno rilevante, il vino con meno alcol potrebbe avere un forte appeal in paesi a maggioranza musulmana come Arabia Saudita e Indonesia, dove il consumo di alcolici è molto ridotto: esportare vini dealcolizzati con etichetta Doc e Docg potrebbe quindi rappresentare un forte fattore di richiamo commerciale.

Infatti la proposta sembra interessare i produttori medio-grandi, così come le grandi associazioni di categoria: non è un caso che Bernard Farges, presidente della EFOW (la Federazione Europea dei Vini) abbia invitato a “tenere a mente che la denominazione deve e può mantenere il controllo delle sue specifiche”, mentre per il segretario generale della UIV (Unione Italiana Vini), Paolo Castelletti, “è importante che queste nuove categorie di prodotti dealcolizzati rimangano all’interno della famiglia dei prodotti vitivinicoli, per evitare che possano divenire business di altre industrie estranee al mondo vino e che dunque siano le imprese italiane a rispondere alle richieste di mercato, specialmente di alcuni Paesi asiatici”.

I chiarimenti sulla proposta UE

È Paolo De Castro, eurodeputato ed ex ministro dell’Agricoltura italiano, a intervenire per chiarire (si spera definitivamente) la questione: innanzitutto, puntualizza, “nessuna norma potrà essere imposta ai viticoltori, perché la scelta finale su un’eventuale modifica del prodotto rimarrà nelle loro mani, con i necessari cambiamenti dei rigidi disciplinari interni di produzione”.

Inoltre, anche se fosse introdotta una norma estensiva sull’etichettatura dei vini dealcolizzati non andrebbe “a togliere nulla a quanto esiste già, creando solo un’enorme possibilità in quei mercati che non consumano bevande alcoliche, come nei Paesi Arabi”, citando in particolare il caso della birra analcolica.

Altro punto critico è l’eventuale denominazione di questo nuovo prodotto – il vino annacquato, o per meglio dire dei prodotti simili al vino ma a base di acqua, si potrebbero ancora legittimamente chiamare vino? – ma anche per questo De Castro è netto: “Un vino senza alcol non può essere definito tale, per questo il Parlamento Ue si è sempre espresso contro, anche se comprendiamo le opportunità commerciali e di export che vini a basso tenore alcolico avrebbero in alcuni mercati”.

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