Aziende italiane in Russia, chi lascia e chi resta

Aziende italiane in Russia, chi lascia e chi resta

Da alcune settimane, per la precisione dallo scorso 24 febbraio, l’Ucraina è sotto invasione da parte della Russia: ufficialmente, come affermato dal presidente Putin, l’obiettivo dell’azione è “smilitarizzare il Paese” e “proteggere il Donbass”, ma le mire sono evidentemente di altra natura, per così dire “imperialistica“. Oltre alle reazioni della comunità internazionale, che ha sanzionato rapidamente la Russia ma, di fatto, non ha potuto impedire il proseguire dell’azione militare, anche molte aziende private hanno iniziato a far sentire la propria voce, chiudendo le attività nel Paese o terminando le collaborazioni. Proviamo a capire quindi chi ha preso una posizione rispetto a questo tema e quali aziende, invece, stanno continuando le loro attività (più o meno) regolarmente con la Russia.

Il fronte dei contrari: i brand che hanno abbandonato la Russia

Secondo i report della Yale School of Management, aggiornati quotidianamente, al 15 marzo sono circa 400 i brand che si sono ritirati dalla Russia, riducendo le loro operazioni e i loro affari come segno di protesta e dissenso contro la devastante invasione dell’Ucraina.

L’escalation è decisamente frenetica: al 28 febbraio solo qualche decina di aziende aveva annunciato la propria partenza, ma con il trascorrere dei giorni (e l’aumento dell’intensità della guerra) c’è stato quasi un esodo di massa aziendale dalla Russia, sulla scia dell’incremento della consapevolezza e della voglia di protestare che sta interessando milioni di persone in tutto il mondo.

L’abbandono è stato trasversale e ha riguardato innanzitutto i grandi brand mondiali: Ikea ha chiuso le proprie filiali a Mosca e in Bielorussia (Paese alleato di Putin), hanno voltato le spalle alla Russia colossi dei motori come Volkswagen, Mercedes, Bmw e Ford, Toyota, Honda, Mazda e Harley Davidson, e giganti tech hanno interrotto programmi e progetti futuri, come ad esempio Netflix, Apple, Alphabet (la società di Google), Disney, Sony e Warner Bros.

Gli impegni contro la guerra dei brand food

Guardando più nello specifico alle azioni intraprese dai brand food (o attinenti al segmento dell’alimentazione), Amazon ha sospeso ogni attività commerciale sul territorio russo e impedito l’accesso al canale video Prime per i clienti in Russia.

Grande effetto comunicativo ha avuto la scelta di McDonald’s, che dal 10 marzo ha imposto la chiusura temporanea di tutti gli 850 ristoranti in Russia, pur garantendo la continuità dello stipendio ai suoi 62.000 dipendenti nel Paese – e migliaia di russi si sono precipitati ad accaparrarsi gli ultimi hamburger del marchio.

Dopo un grande battage sui social, anche Coca-Cola e Starbucks si sono mosse in questa direzione, annunciando la sospensione delle attività in Russia, seguite dopo poco da altri brand beverage come Pepsi, Heineken e Carlsberg. In particolare, la storica azienda produttrice di birra ha spiegato che cesserà anche le campagne pubblicitarie attive in Russia e devolverà i profitti raccolti sul mercato, garantendo comunque il lavoro per gli 8.400 dipendenti attivi negli otto birrifici Baltika Brewer (marchio controllato da Carlsberg), che però “continuerà a operare come un’azienda separata”.

Scelta a metà anche per KFC e Pizza Hut, che (dopo una vagonata di polemiche) hanno cessato temporaneamente le proprie operazioni o almeno parte di esse in Russia, “nonostante sia un mercato chiave” come chiarito da Yum! Brands Inc, azienda proprietaria dei marchi. Il blocco interessa tutti i punti vendita di Pizza Hut ma solo una settantina di punti vendita di KFC rispetto al migliaio di sedi complessive, che però nella maggior parte sono indipendenti dal controllo diretto di Yum!.

Le aziende italiane che dicono addio alla Russia

Guardando alle azioni di casa nostra, in queste settimane si sono mosse con interventi decisi soprattutto brand del settore automotive, finanza e moda – che hanno i maggiori affari in Russia – ma anche marchi impegnati in ambito food hanno iniziato a prendere posizioni ufficiali.

È il caso di Ferrero, che ha sospeso le operazioni in Russia per tutti i prodotti controllati (quindi, niente Nutella, Ferrero Rocher o Kinder per i russi), e Lavazza, che ha sospeso le attività e previsto donazioni umanitarie. Proprio in queste ore, poi, Eataly ha deciso di chiudere il suo unico punto vendita nel Paese, quello di Mosca, e di promuovere iniziative solidali di donazione di prodotti alimentari per sostenere la popolazione ucraina.

A loro si aggiungono altri brand celeberrimi italiani come, tra gli altri, Prada, Bottega Veneta, Moncler, Gucci e Italia Independent, che hanno deciso per una condanna netta dell’intervento militare in Ucraina, sospendendo (almeno temporaneamente) le proprie attività in Russia come gesto di solidarietà al popolo ucraino, e il colosso Stellantis – nato dalla fusione tra Fiat Chrysler Automobiles e Groupe PSA – ha lasciato il mercato russo e stanziato un milione di euro per gli aiuti umanitari ai rifugiati ucraini.

Chi resta in Russia e continua i business

Hanno invece scelto una strada differente altri brand italiani (e internazionali), che stanno proseguendo più o meno regolarmente le attività in Russia e attendono eventualmente l’evoluzione della situazione.

Nel campo della moda, ad esempio, Liu Jo ha deciso di non bloccare le esportazioni verso la Russia; Pirelli sta continuando le attività, ma al tempo stesso ha donato 500mila euro per aiutare i rifugiati ucraini e condannato ufficialmente l’azione di guerra; il gruppo Veronesi (leader nell’agroalimentare in Italia, anche attraverso i marchi Aia e Negroni) porta avanti i suoi contratti e i suoi investimenti in Russia, così come UniCredit continua a operare anche tramite UniCredit Bank Russia, mentre Pirelli e Illy non hanno rilasciato dichiarazioni ufficiali.

Tra gli altri brand food che hanno puntato sulla continuità in Russia ci sono Auchan, Danone, Metro, Mars, Mondelez, Subway, Domino’s Pizza (che però ha annunciato che rinuncerà alle royalties provenienti da quel mercato) e Burger King (che però devolverà i ricavati al sostegno dei profughi).

L’impatto del brand activism

Stando ai sondaggi, gli italiani sono molto attenti all’evoluzione della situazione in Ucraina e anche alle mosse delle aziende che hanno interessi in Russia. In particolare, il 72% degli intervistati da SWG per Parole O-Stili pensa che i brand di aziende private intervenuti nel conflitto con azioni concrete “abbiano dato una maggiore forza all’intervento dei governi e delle istituzioni internazionali”, e il 69% ritiene queste decisioni “un segno di attenzione che questi soggetti hanno dimostrato verso un popolo oppresso”.

 

 

 

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