Quanto costerebbe il cibo se il prezzo includesse l’impatto ambientale

Il cibo che acquistiamo e consumiamo ha un valore invisibile di molto superiore al suo prezzo: è questo ciò che rivela uno studio tedesco pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica Nature, che per la prima volta analizza altri fattori rispetto ai “classici” sistemi per determinare il costo dei prodotti, prendendo in considerazione anche l’impatto ambientale e provando a quantificarne gli effetti sulla comunità.

Costo del cibo, quanto vale l’impatto ambientale

Tutto ciò che produce l’uomo ha un determinato impatto ambientale: di solito, questa espressione è usata in riferimento agli effetti nocivi dei processi industriali o dell’uso di macchine alimentate da fonti energetiche “pesanti” (le automobili, i mezzi di trasporto, ma anche caldaie e così via), e solo di recente si sta studiando il ruolo dell’agricoltura e della produzione di alimenti.

Ebbene, le statistiche rivelano che proprio l’agricoltura impatta notevolmente sull’emissione di gas nocivi – rappresenta quasi un quarto delle emissioni globali di gas serra di origine antropica – ma finora non si era mai investigato sul vero costo dei cibi trasformati, considerando appunto anche il loro impatto ambientale e non solo il cartellino commerciale.

Lo studio tedesco sul vero prezzo degli alimenti

Ha quindi tanti meriti lo studio pubblicato sulla rivista Nature e curato da un team di ricercatori di varie università tedesche – intitolato “Calculation of external climate costs for food highlights inadequate pricing of animal products”, in italiano traducibile come “Calcolo dei costi delle esternalità del clima per il cibo che evidenzia il prezzo inadeguato dei prodotti animali” – che dimostra, in estrema sintesi, come il danno ambientale per l’intero pianeta, derivante dalla produzione di alimenti, non si rifletta attualmente sui loro prezzi.

Considerando anche i costi aggiuntivi derivanti dagli effetti dei gas serra emessi, infatti, tantissimi prodotti alimentari di origine animale (a cominciare ovviamente dalla carne, ma passando anche per prodotti caseari e tipi di latte) sarebbero molto più costosi, e questa rimodulazione del prezzo porterebbe anche a una riduzione tra prodotti convenzionali e biologici.

Impatto ambientale dei cibi, quali sono i costi per il pianeta.

I ricercatori hanno analizzato i costi al mercato dei principali prodotti alimentari nel contesto tedesco (ma l’analisi può facilmente essere applicata anche alla realtà italiana) e, come spiegano da Asvis, l’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile, mette clamorosamente in evidenza come “l’attuale prezzo medio di acquisto della carne, e dei prodotti alimentari in generale, non riflette il costo pagato dal consumatore (e dalla collettività) in termini reali”.

E, quindi, dietro a una domanda apparentemente banale come “quanto costa una bistecca?”, a cui ognuno di noi risponderebbe a colpo sicuro facendo riferimento al semplice prezzo del cartellino, c’è molto altro: un insieme di costi ed effetti “invisibili” per l’ecosistema e il pianeta, che non vengono calcolati ma che – se quantificati – danno idea dell’enormità dell’impatto della produzione alimentare.

Cosa sono le esternalità negative

Per determinare questi costi complessivi, gli studiosi sono partiti dalla teoria economica delle “esternalità negative”, ovvero “costi scaricati sulle spalle dei cittadini da chi produce un determinato bene o servizio”, come sono ad esempio i “costi ambientali da imputare alle attività aziendali ma che, di fatto, pagano i cittadini sotto forma di spese sanitarie, emissioni climalteranti e inquinamento”.

Da queste premesse, il team ha valutato e calcolato tutti i costi ambientali “invisibili” che si generano lungo l’intera catena di produzione alimentare, come “l’uso eccessivo di fertilizzanti nocivi per il suolo, le emissioni di metano dannose per l’equilibrio climatico, il sistema di trasporti e di riscaldamento responsabili delle emissioni di CO2 e di polveri sottili che minano la qualità dell’aria”.

Il gruppo guidato da Tobias Gaugler (economista presso la Universität Augsburg) con Maximilian Pieper (Technische Universität München) e Amelie Michalke (Universität Greifswald) tratteggia anche il quadro delle emissioni di gas serra nell’agricoltura, arrivando a determinarne quantità e tipologie in base ai diversi tipi di coltivazione e allevamento, per individuare il punto della produzione alimentare e “quantificare” il loro costo sul singolo cibo. In aggiunta all’anidride carbonica, il calcolo indica anche altre fonti nocive, quali le emissioni di protossido di azoto e metano, e gli effetti climatici del cambiamento dell’utilizzo del suolo, causati in particolare dal drenaggio delle torbiere e dalla deforestazione delle aree della foresta pluviale, che servono poi per la produzione di mangimi per animali.

L’obiettivo del lavoro è stato duplice: da un lato, ha dimostrato che queste esternalità hanno un costo economico sulla comunità – e quindi, generano effetti non sono dannosi per il clima, ma anche per le finanze, perché si convertono in costi consequenziali specifici che dovrebbero essere aggiunti agli attuali prezzi di mercato dei prodotti alimentari – e dall’altro ha inteso far luce sul divario cognitivo che esiste tra quello che mangiamo e gli impatti che ne derivano.

Quanto costa davvero il cibo che consumiamo

Venendo a cifre e dati, allora, non sorprende scoprire che l’alimento che dovrebbe avere il rincaro maggiore sia la carne: per la precisione, se calcolassimo anche il suo impatto ambientale una bistecca costerebbe il 146% in più, mentre i prodotti lattiero-caseari dovrebbero avere prezzi medi praticamente raddoppiati + 91%).

È facile intuire che, al contrario, è inferiore lo scarto di prezzo per alimenti di origine vegetale, valutato intorno al 6%, che quindi dimostrano un minore impatto su biodiversità e clima.

Prezzi più alti per una diversa coscienza alimentare

In conclusione, questo studio può essere considerato un invito a maturare una differente coscienza alimentare: sapere quanto “costa” (non solo in termini economici) ciò che mangiamo può servire a un cambio di abitudini e di dieta, orientandoci verso soluzioni più ecosostenibili.

Secondo gli autori, riuscire “in qualche modo a incorporare il costo ambientale della produzione alimentare nel prezzo del cibo” potrebbe convincere i consumatori a preferire “diete a base vegetale, più sostenibili e meno impattanti per gli ecosistemi del nostro Pianeta”.

Non basta scegliere il biologico

Attenzione però a ipotizzare soluzioni “semplicistiche”, come ad esempio pensare che i metodi di coltivazione biologica possano risolvere tutti i problemi e impattare di meno: la ricerca rivela, infatti, che pur fornendo un aiuto, tali sistemi non sono esenti da emissioni negative, e in particolare la produzione di carne, anche da allevamenti biologici, ha un impatto ambientale non sostenibile. Ad esempio, pur riducendo innegabilmente l’uso di sostanze inquinanti, un allevamento biologico richiede comunque maggiori superfici a disposizione per il pascolo, un costo per l’intera comunità da valutare nella quantificazione delle esternalità.

Allo stesso tempo, anche la scelta di alzare i prezzi tout court potrebbe avere conseguenze negative, perché “potrebbe minare l’accessibilità al cibo da parte di una grossa fetta di consumatori”, anche se parliamo di un incremento di lieve entità come quello per i vegetali.

In definitiva, quindi, gli autori pensano che sia fondamentale “internalizzare nel prezzo del bene il costo dell’esternalità negativa”, e che però tale mossa “dovrebbe essere supportata da misure di compensazione sociale e da sussidi offerti dai governi, in modo da rendere anche questa transizione equa per tutti”.

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