L’integrazione passa per la tavola: iniziamo da Masterchef ma non solo

In questi tempi difficili, in cui è più facile dividere e trovare elementi di contrasto che cercare una sintesi, la cucina può rappresentare una piccola oasi felice per imparare cosa sia davvero l’integrazione. A darci l’esempio è una puntata di Masterchef Italia, ma in realtà è da tempo che i fornelli cercano di superare le differenze.

Masterchef e l’integrazione a tavola

Come scrivevamo, l’ultima dimostrazione del potere unificatore della gastronomia è arrivato dal cooking show più famoso del mondo: in occasione della sesta puntata di Masterchef Italia 9, i concorrenti in gara si sono cimentati in tre prove creative in cui hanno dovuto usare e dosare ingredienti differenti e apparentemente distanti, anche in senso geografico.

L’esaltazione del couscous

Nella mistery box che ha inaugurato l’episodio, in particolare, hanno trovato semola di grano duro, alloro e contenitore di coccio, che hanno acceso i riflettori su un piatto simbolo di varie tradizioni gastronomiche come il couscous. Oltre a essere una ricetta tipica di tutte le culture nordafricane e in particolare della cucina marocchina, questa creazione è una specialità storica anche nella provincia di Trapani, eredità secolari scambi commerciali e flussi migratori.

Un vero e proprio alimento globetrotter e pacificatore, perché capace di integrarsi con gli altri ingredienti con cui viene a contatto e di dar vita a pietanze nuove e sempre gustose: nella sua storia, il couscous ha superato i confini e si è sposato con le tradizioni alimentari preesistenti, credenze religiose e abitudini conviviali.

La prova fusion a Masterchef 9

Nel corso della puntata, la pietanza è stata definita il “comune denominatore delle tavole mediterranee, che unisce Italia, Marocco, Palestina, Israele, Tunisia, Libia e tutti i Paesi del Bacino del Mare Nostrum”, e i concorrenti sono stati chiamati a preparare un couscous in piena regola usando però un innovativo mix di ingredienti per esprimere una storia personale.

A fare da guida agli aspiranti chef è stata la cuoca Benedetta Schifano, originaria di Trapani e depositaria dei segreti della tradizione, che ha tenuto una sorta di masterclass veloce per mostrare come preparare un couscous a regola d’arte, mostrando tutti i passaggi della lavorazione. Si parte con l’incocciamento della semola di “spezzato di Bidì” – una pratica che nella tradizione era destinata a un gruppo di donne riunite, metafora dell’unione dei popoli, come sottolineato dai giudici –  e si passa al “fisculiamento”, per poi procedere con la preparazione della “cuddura” che serve a sigillare la couscoussiera fino all’uso dei cuddureddi che servono a controllare i tempi di cottura.

Assaggi di cucina fusion

La storia del couscous a Trapani è così radicata, racconta Schifano, che ” un tempo le ragazze portavano in dote la mafaradda e la couscoussiera”, ovvero gli utensili necessari per preparare la ricetta. Ma oltre che il lavoro delle mani e l’antica sapienza del gesto, a essere esaltato è il significato di questo piatto, che richiama alla mente “convivialità, unione, festa, famiglia” e crea una “ritualità multiculturale”.

Elementi che, in qualche modo, sono alla base della filosofia della cucina fusion, che nell’espressione più elevata è l’incontro armonico di varie e distinte tradizioni culinarie, provenienti da Paesi anche molto lontani tra di loro, all’insegna di una reinterpretazione personale che racconti qualcosa dello chef.

E se fino a qualche anno fa questi esperimenti di “fusione a freddo” venivano liquidati come tentativi goffi di modificare ricette tradizionali, oggi sembra esserci una maggiore apertura mentale (anche nei clienti consumatori), una maggior voglia di sperimentare nuovi gusti e preparazioni, una tendenza ad ampliare i propri orizzonti.

La patria di questa contaminazione positiva è ovviamente il mondo della ristorazione americana, che ha da sempre visto nella cucina fusion l’occasione di unire più anime (e di accontentare una maggior platea di utenti, assecondando il meltin’ pot urbano degli Stati Uniti): gli chef più trendy negli USA abbracciano le differenze e le usano per creare qualcosa di nuovo e unico, con cui raccontare le proprie storie professionali e personali, ma la stessa cucina italoamericana è frutto di questa filosofia.

La fusione e l’integrazione a Masterchef

Anche il prosieguo della sesta puntata della nona edizione di Masterchef Italia ha puntato sull’integrazione, dimostrando come si può raggiungere questo simbolico obiettivo attraverso la cucina. Nell’Invention Test i concorrenti (e noi spettatori, con loro) hanno scoperto le varietà più particolari di agrumi, come il limone caviale, il calamansi, la combawa, il faustrim o la “mano di Buddha”, da usare per preparare un piatto gustoso.

La prova in esterna, se possibile, è stata ancora più iconica: a pochi chilometri dal centro urbano di Milano, la brigata di Masterchef si è trovata catapultata in un ambiente decisamente orientale e colorato, per un matrimonio in perfetto stile bollywoodiano di una coppia di sposini di origine indiana. Gli chef hanno dovuto cimentarsi – ancora una volta – nel dare una interpretazione personale e occidentale alle specialità tipiche indiane, assicurando allo stesso tempo il rispetto della tradizione culinaria del Paese.

Che è l’obiettivo a cui deve tendere la cucina fusion, che così può davvero creare un legame tra località, persone e storie apparentemente lontane.

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