Liscia o rigata: l’inchiesta di report fa luce sulla pasta, diteci la vostra

Si parla di pasta nell’ultima inchiesta di Report sul mondo alimentare italiano, che fa luce su uno dei prodotti più amati e consumati nel nostro Paese: quello che emerge è che la diffusione non è direttamente proporzionale alla conoscenza dell’ingrediente, soprattutto nella scelta dei tipi di pasta da impiegare tra liscia e rigata, e che bisogna fare attenzione alle etichette per scoprire la provenienza del grano.

Pasta liscia o rigata, l’inchiesta di Report

Il punto centrale della trasmissione è stato il segmento curato da Bernardo Iovene – già protagonista dell’inchiesta sul caffè di qualche anno fa – per martellare le nostre certezze sui tipi di pasta: pur essendo tra i più grandi consumatori e produttori al mondo di pasta e ritenendoci grandi cuochi e buongustai, noi italiani consumiamo in larghissima maggioranza pasta rigata anziché pasta liscia, con proporzione di 95% a 5%.

Anche durante il lockdown di marzo hanno fatto sorridere (sempre nella tragicità del contesto) le immagini delle confezioni di penne lisce rimaste invendute sugli scaffali mentre tutti gli altri formati di pasta erano stati presi d’assalto: ma questa predominanza delle rigate è “questione solo di gusto o è un comportamento indotto dall’industria in qualche modo”?

Pasta liscia, la preferita dei grandi chef

L’inchiesta cerca in pratica di sovvertire la percezione comune e di smentire il mito della pasta rigata migliore per resistenza alla cottura e capacità di trattenere il sugo e i condimenti, intervistando pastai professionisti, chef ma anche semplici clienti. Il quadro che si ottiene è una profonda spaccatura tra pareri “comuni” (tutti i clienti di ristoranti o supermercati esprimono la preferenza per i formati rigati di ogni tipo, anche per la pasta corta) e quelli invece degli operatori del settore, visto che tutti i cuochi e i produttori affermano convinti che la pasta liscia sia superiore per qualità e resa.

In particolare, tre chef stellati campani patteggiano apertamente per la pasta liscia e spiegano le loro motivazioni. Ernesto Iaccarino del Don Alfonso 1890 serve solo pasta liscia trafilata in bronzo, che conserva tutti gli umori; per lui, “una grande pasta deve avere tre cose fondamentali: una essiccazione a bassa temperatura tra i 52 e i 58 gradi, poi una trafila in bronzo e la cosa fondamentale, i grani”.

Lino Scarallo, chef di Palazzo Petrucci, sostiene di non aver “mai usato la pasta rigata” anche perché la liscia dà una resa superiore anche per il classico ragù napoletano: “sulla liscia il sugo si distende in maniera uniforme, sulla rigata no”, perché da un lato c’è una superficie liscia e quindi continua, dall’altro una superficie irregolare, con altezze e profondità diverse, che possono anche provocare difformità nella cottura.

Proprio di questo parla Gennaro Esposito, chef della Torre del Saraceno, che si iscrive al partito della pasta liscia: “Il rigo esprime un limite, un difetto della pasta; se noi guardiamo il rigo al microscopio vedremo tante punte che circondano il diametro della pasta, e a un certo punto della cottura, quando il cuore della pasta è cotto bene, queste punte saranno scotte, tenderanno a rompersi e disfarsi e impasteranno il sugo”.

Perché la pasta liscia è superiore

Per Gennarino Esposito, “è molto importante invece che il rapporto tra pasta e sugo sia un rapporto d’amore, sincero”, perché “la pasta è una tela bianca, ci puoi dipingere quello che vuoi sopra”.

“La penna liscia è una dei formati più buoni del mondo, perché è più buono”, sintetizza Omar Farinetti di Eataly, che si definisce un “fanatico della penna liscia”: per lui, “una pasta liscia trafilata al bronzo, essiccata lentamente, dà altre sensazioni” rispetto alla pasta rigata, che invece nasce per ragioni più pratiche.

La riga serve infatti per tenere il sugo, è un’idea intelligente per andare incontro all’industrializzazione dei processi, che ha ridotto il ricorso alla trafilatura in bronzo e velocizzato i tempi di essiccazione, col risultato che la pasta “non assorbe bene” come quella artigianale.

Simile il pensiero di Giuseppe Di Martino, presidente del Consorzio di tutela della pasta di Gragnano, che dice che “il rigo serve per mantenere una cottura nelle aree di produzione che non erano naturalmente vocate a produrre pasta” e che il “vero intenditore di pasta non preferisce quello scalino” tipico dei formati rigati.

Anche Alberto Zampino del Pastificio Gentile di Gragnano è sulla stessa linea di pensiero: “Noi siamo 100% pasta liscia, perché inevitabilmente, per quanto la rigatura voglia essere marcata, in cottura inevitabilmente si sfalda”. Al contrario, “la pelle – quindi la parte esterna della penna – ha una ruvidezza tale che nessuna riga potrebbe mai sostituire. Nessuna”.

Le ragioni della pasta rigata

Eppure, ci sono pareri contrastanti anche tra i professionisti, e ad esempio Valerio Giovannozzi, docente dell’Accademia Chef di San Benedetto del Tronto, preferisce la pasta rigata perché “regala una legatura, un discorso di cremosità unico, che la pasta liscia non può dare”.

Di fondo, però, al di là del tipo di pasta e del formato – e quindi, che sia pasta corta o lunga, rigata o liscia – ciò che conta è che sia fatta a regola d’arte, così da diventare “quella tela bianca, sulla quale puoi dipingere quello che vuoi”, come dice poeticamente Gennarino Esposito.

Le regole della pasta e le controversie

Ciò significa trafilatura in bronzo, essiccazione lenta, dalle 18 alle 60 ore a temperature inferiori ai 50 gradi, e utilizzo di ottimo grano duro.

Ma questi sono punti piuttosto critici, su cui si concentra la seconda parte dell’inchiesta, che rivela alcuni aspetti controversi legati alla commercializzazione della pasta: innanzitutto, quasi tutti i brand utilizzano un mix di grani italiani ed “extra UE”, anche se questo non è sempre visibile immediatamente in etichetta (e l’Antitrust ha sanzionato varie marche per questa scarsa trasparenza). Una scelta dettata anche dalla necessità, perché in Italia produciamo troppo poco grano rispetto a quanto ne consumiamo (e alcuni grani esteri, soprattutto Americani, sono di qualità e costo superiori rispetto a quelli nazionali).

Inoltre, di recente lo stesso Consorzio di tutela della pasta di Gragnano IGP ha modificato il disciplinare di produzione, abbassando a 4 ore il limite minimo di essiccazione della pasta: il massimo resta 60 ore, ma in precedenza l’essiccazione doveva durare almeno 6 ore. Questo cambio agevola i produttori perché abbassa i costi di produzione, ma rischia di ridurre anche la qualità della pasta.

Problematico è anche il sistema di trafilazione: i pastifici che usano il bronzo in genere lo indicano sulla confezione, ma il metodo più diffuso è quello con il teflon, quindi con la plastica: la differenza è che la “pasta al Teflon ha una superfice liscia e lucida, quella al bronzo è ruvida, con una alta capacità di trattenere il condimento e anche una qualità superiore di semola”, spiega il conduttore.

Etichette e informazioni sulla confezione sotto accusa anche per i tempi di essiccazione: chi utilizza un metodo di essiccazione lenta, sopra alle 18 ore, “lo mette in bella mostra, ma chi invece sta sotto le 9 ore tende a non dirlo”.

Insomma, questa inchiesta di Report squarcia un po’ di veli sui segreti della pasta: noi italiani “siamo i più grandi consumatori al mondo, ne consumiamo circa 23 chili e mezzo in media ogni anno; i nostri pastai sono i migliori al mondo e producono circa 300 tipi di pasta diversa che esportano in 22 paesi”, ma in fondo le nostre abitudini di acquisto e consumo sono spesso poco “consapevoli”.

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