Pane cafone: perché si chiama così?

Nel moderno dizionario italiano, l’aggettivo cafone ha una connotazione negativa perché fa riferimento a una persona “rozza, grossolana, maleducata”, ma a Napoli e in generale in Campania questo termine apre a scenari completamente diversi, perché definisce una speciale forma di pane tradizionale, di preparazione semplice e gusto e profumo eccezionali. Scopriamo la storia e le caratteristiche del pane cafone, una delle specialità più particolari dell’arte gastronomica napoletana!

Pane cafone, che cos’è

Il pane cafone è un prodotto tipico napoletano che affonda le sue radici nella storia gastronomica della città e della regione Campania: si tratta di un pane semplice a lunga lievitazione, preparato con il lievito naturale, che si riconosce a colpo d’occhio per la forma rotonda di ampie dimensione, con una mollica alta e la crosta spessa e croccante.

Più precisamente, il pane cafone si caratterizza per la crosta di colore intenso (con diverse striature di marrone), spessa e croccante (alta circa un centimetro), che protegge una mollica alta, morbida, elastica e perfettamente alveolata, rigorosamente di colore paglierino; questa pagnotta non presenta tagli e incisioni sulla sua superficie, e il processo di preparazione del pane permette di mantenere grossa parte dell’umidità all’interno della forma, che quindi ha una specifica consistenza morbida e un profumo coinvolgente.

Le caratteristiche del pane cafone napoletano

Approfondendo le questioni pratiche, la ricetta del pane cafone napoletano prevede classicamente l’utilizzo di una miscela di farina 0, ricca di glutine e adatta alle lunghe lievitazioni, e di semola rimacinata di grano duro, che rende l’impasto più saporito e corposo.

Il primo segreto dietro la qualità del prodotto sta nella lunga lievitazione: la preparazione del pane cafone inizia con il lievito madre o criscito, impastato con acqua e farina di grano tenero, che conferisce una consistenza ruvida e corposa e rende anche la pagnotta più resistente – e difatti questo pane dura e si mantiene commestibile per diversi giorni, da tre addirittura a otto.

L’altro passaggio cruciale è la lievitazione, che è molto lenta e rispetta i ritmi naturali dei vari ingredienti: difatti, se vogliamo preparare il pane cafone in casa, dobbiamo avviare il procedimento il giorno prima, lasciando lievitare una notte intera e poi cuocerlo al mattino. Storicamente, infatti, l’impasto veniva avvolto in teli di juta che ne permettevano la respirazione.

Nello specifico, per fare il pane cafone dobbiamo rispettare una serie di passaggi: impasto, lievitazione, pieghe, seconda lievitazione, formatura, terza lievitazione e cottura nel forno a legna, anche se possiamo anche tentare una cottura in forno elettrico casalingo usando in supporto una pietra refrattaria o biscotto, trattengono e distribuiscono il calore più uniformemente. Sempre per quanto riguarda la cottura, poi, è importante porre il pane in forno solo quando la lievitazione è al culmine, perché così favoriremo l’uscita di anidride carbonica e, di conseguenza, la formazione del rigonfiamento sulla superficie superiore e l’ispessimento della crosta.

Il prodotto finale è una pagnotta che solitamente ha grande pezzatura, fino anche a quattro chili, di forma rigorosamente tonda, senza alcun tipo di taglio sulla superficie.

Perché a Napoli il pane si chiama cafone

Non è ancora certo il motivo per cui questa tipologia di prodotto si chiami pane cafone, e la stessa Accademia della Crusca ammette che le origini dell’aggettivo cafone sono ancora incerte e poco chiare. Rispetto all’utilizzo moderno, comunque, sembra assodato che originariamente nei dialetti meridionali la parola “cafone” indicava in modo più neutro i contadini (e qui ci viene in soccorso anche il celebre romanzo Fontamara di Ignazio Silone, che metteva nel gradino più basso della piramide sociale proprio i cafoni, ovvero i contadini) e tutti coloro che abitavano al di fuori del centro cittadino.

E quindi, per estensione, il pane cafone sarebbe appunto quello preparato nei secoli scorsi dai contadini o comunque da fornai localizzati nella provincia di Napoli, che poi raggiungevano la città con i loro carretti di legno per vendere le pagnotte fresche (palatelle, perché di grandezza pari a quella di una pala da forno): un prodotto umile, con ingredienti poco “nobili”, ma di grandissimo gusto e qualità.

Dove nasce il pane cafone

Molteplici sono anche le teorie sull’origine geografica del pane cafone, la cui paternità è contesa da varie località, sia nella provincia di Napoli che in territori attualmente ricadenti nelle province di Avellino e Benevento – a riprova, ad ogni modo, di come questa preparazione fosse comunque diffusa in tutta la Campania, frutto dell’ingegno locale e della capacità di sfruttare al massimo le materie prime a disposizione.

Secondo la teoria più accreditata, il pane cafone sarebbe nato sui Camaldoli, la più grande collina di Napoli, nella parte nord occidentale della città, e il famoso pane dei Camaldoli (che detiene il prestigioso riconoscimento Prodotti agroalimentari tradizionali italiani, nella categoria “Paste fresche e prodotti di panetteria, pasticceria, biscotteria e confetteria”) sarebbe quindi il massimo esempio di questa tecnica storica di panificazione.

Altri esperti, invece, individuano nel comune di San Sebastiano al Vesuvio la culla del pane cafone: questa piccola località alle pendici del Vesuvio è nota ancora oggi per la tradizione secolare dell’arte bianca e in particolare per il “pane a ott’”, una perifrasi che fa riferimento alla capacità del “palatone” di mantenersi fresco, croccante e buono da mangiare fino a otto giorni.

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