Chi ha inventato la pizza? Ecco la vera storia

È uno dei simboli della cucina italiana a livello globale, emblema stesso della nostra cultura gastronomica, fonte di orgoglio, identità e appartenenza. Difficile trovare qualcosa di più rappresentativo della pizza, uno degli alimenti che evoca anche al solo pensiero un sentimento di comunanza e radicamento. Oggi dire pizza significa pensare a Napoli, eletta sua patria d’origine, e al calore accogliente dei suoi forni a legna. Eppure, la storia della pizza ci racconta un percorso complesso, lungo e mutevole, sia dal punto di vista della preparazione che della percezione del prodotto. Andiamo quindi a ripercorrere la strada di disco di pasta che, con i suoi ingredienti semplici e genuini, ha abbracciato secoli, continenti e culture, in un viaggio che comincia molto prima che la pizza diventasse “la pizza”.

Storia della pizza: dalle origini alle prime preparazioni

Per apprezzare appieno il valore culturale della pizza, dobbiamo immergerci nelle profondità della storia, che affonda le radici molto al di là della Napoli barocca o del forno a legna.

Dobbiamo tornare addirittura al periodo del Neolitico, un’epoca in cui l’uomo scopriva le prime forme di coltivazione e imparava l’arte della cottura su pietra: è in questa fase che, per la prima volta, i cereali raccolti dai campi venivano schiacciati e impastati, diventando quei dischi di pane piatto che possiamo considerare come gli antenati remoti della pizza. La scoperta della farina aprì nuovi orizzonti gastronomici, portando alla nascita di schiacciate o focacce, un primo tentativo di conferire sapore ai carboidrati primordiali che concimavano la dieta dell’umanità arcaica.

Possiamo quindi ritrovare le prime forme di “pizza” tra le varie tradizioni culinarie che si svilupparono nel bacino del Mediterraneo. I Greci, già avanzati nell’arte della panificazione, preparavano il plakous, una focaccia appiattita generosamente arricchita con aromi di aglio, cipolla e spezie. La pita, che conosciamo oggi come il tipico pane greco, affonda anch’essa le radici in questa pratica antichissima di impastare e cuocere su pietra dischi di pasta che venivano consumati come piatti commestibili. A est, nella Persia del grande Dario, i soldati usavano gli scudi da battaglia per cuocere una focaccia simile, condita con datteri e formaggio, che rimanda, per sinuosità gastronomiche che attraversano i millenni, alla moderna pizza dolce o hawaiana. Ma, forse, la menzione più epica arriva dalla penna di Virgilio nell’Eneide, dove si narra che Enea, dopo un lungo viaggio e afflitto dalla fame, ordinò ai suoi uomini di cibarsi dei dischi di pane che avevano usato come piatti: un gesto che alludeva sia alla necessità sia all’ingenuità di un tempo in cui il pane era, prima di ogni altra cosa, sostanza per la sopravvivenza.

A proposito di Roma, poi, gli antichi Romani ripresero e perfezionarono queste prime ricette di focacce sfruttando la loro conoscenza avanzata della panificazione: qui si usavano di preferenza farine di farro, antichissimo cereale progenitore del grano moderno, per preparare una massa che veniva impastata con acqua e spezie, e cotta sul focolare.

In queste prime manifestazioni alimentari, la pizza non era ancora la pietanza saporita che avrebbe conquistato il mondo, ma il concetto di usare un substrato di pane per sostenere cibi più succulenti o aromatici era già ben radicato. Certo, siamo lontani dalla preparazione a cui siamo abituati oggi – che unisce in modo magico aromi di pomodoro e basilico, la leggerezza soave della mozzarella e i bordi soffici che del cornicione – ma vediamo la scintilla primordiale da cui sarebbe scaturita la pizza, che associava il pane alla convivialità e alla comunione, in un percorso che ancora svela legami indissolubili tra cibo e cultura, tra alimentazione e arte.

Discusse, gustate e perfino trascritte nei testi letterari del tempo, queste focacce venivano a volte impiegate come veri e propri piatti per raccogliere altre pietanze, compiendo così quel gesto che Virgilio, con tono quasi mitico, attribuisce all’epoca degli eroi.

Le origini del nome: il viaggio della pizza e l’arrivo a Napoli

Durante il Medioevo, mentre il Mediterraneo diventava crogiolo di scambi culturali e gastronomici, il termine “pizza” iniziava a comparire in diversi contesti, indicante una varietà di pani e focacce che avrebbero poi segnato il destino culinario di Napoli.

Proveniente da una radice linguistica incerta, “pizza” potrebbe derivare dal longobardo “bizzo” o “pizzo”, che significava “morso” o “boccone” — una parola che, giunta nel Meridione tramite le ondate barbariche, si adattò alla descrizione del più umile e arcaico dei pasti: una semplice schiacciata di farina e acqua, spesso condita con spezie e aromi locali.

Il primo documento in cui la “pizza” viene menzionata è un testo notarile del 997 d.C., in cui appare come tributo al locatore in un contratto d’affitto di un mulino a Gaeta, a dimostrazione di come questo alimento avesse già trovato un posto importante nelle tradizioni culinarie e sociali del Sud Italia. Questa “pizza” medievale, tuttavia, era ben diversa da quella che conosciamo oggi: era più vicina a un pane piatto, una focaccia che variava nei condimenti e nel metodo di cottura a seconda delle risorse locali e delle tradizioni regionali.

È nei secoli successivi, tra il Quattrocento e il Cinquecento, che la parola “pizza” inizia a prendere piede a Napoli, una città viva, eclettica e crocevia di commerci provenienti dal Mediterraneo e dall’entroterra. Ma la pizza non è ancora quella corona di pomodoro e mozzarella che oggi trionfa sulle tavole di tutto il mondo, quanto piuttosto un cibo popolare, una soluzione pratica e gustosa alle pressanti esigenze di una popolazione numerosa e in continua crescita, proposta sotto forma di disco di pasta robusta su cui vengono sparsi pochi ingredienti fragranti, quelli che la terra offre e che il loro palato apprezza.

Uno dei primi esempi di pizza napoletana è la “Mastunicola“, una pizza rustica e saporita, preparata con strutto, formaggio pecorino, basilico e pepe. Il nome “Mastunicola” viene tradizionalmente interpretato come il “maestro Nicola”, un probabile omaggio a chi per primo l’ha inventata o, più poeticamente, a una figura emblematica di sapienza popolare nel campo della panificazione. In questa preparazione, la “pizza” assume un’identità propria, un’anticipazione di ciò che diventerà più tardi: è un cibo veloce, gustoso e alla portata di tutti, preparato sia come snack da strada sia come una delizia casalinga, il cui profumo evocava vicoli stretti e cucine affollate. Accanto alla Mastunicola, un’altra variante iniziale era la pizza condita con i “cecinielli”, piccoli pesci della costa napoletana, che valorizzavano le risorse abbondanti del mare partenopeo.

Nel Seicento la città di Napoli, allora capitale del vicereame spagnolo, viveva nello splendore e nelle contraddizioni del barocco: qui la pizza si affermò ulteriormente come cibo per tutti — i poveri, gli artigiani, e sempre più anche tra i ceti medi, attratti dalla facilità di consumo e dalla sua sapidità rustica. Le pizze si vendevano per strada, l’artigianalità iniziava a prendere dimensione, e in questo drappo di semplicità si nascondeva una genesi destinata a incrociare la sorte comune di un ingrediente insolito che avrebbe cambiato la storia di Napoli e il destino della pizza: il pomodoro.

La rivoluzione del pomodoro, l’ingrediente esotico adottato dalla cucina italiana

Anche se oggi ci sembra impossibile, la verità è che per secoli la pizza è esistita senza pomodoro: nelle sue prime incarnazioni, infatti, la pizza era una pietanza austera, condita con ciò che era a disposizione, come erbe aromatiche, formaggi, anche piccole quantità di pesce. Tuttavia, il XVIII secolo avrebbe portato un cambiamento radicale, grazie all’avventuroso incontro tra il Vecchio e il Nuovo Mondo, in cui le spedizioni spagnole depositarono sulle coste italiane uno strano frutto che avrebbe trasformato non solo la pizza, ma l’intero repertorio culinario europeo: il pomodoro.

Questo vegetale, importato in Europa dalle Americhe, venne inizialmente accolto con diffidenza. Il suo colore rosso intenso, simile ai frutti di piante velenose, suscitava sospetti, facendolo etichettare come pericoloso. Solo in un secondo tempo il pomodoro riuscì a guadagnarsi un posto in cucina, grazie all’intuizione di qualche audace che ne scoprì la versatilità e il sapore inebriante. A Napoli, in particolare, il pomodoro trovò terreno fertile non solo nelle coltivazioni, ma anche nei piatti: fu qui che la salsa di pomodoro divenne sinonimo di casa, di tradizione e, infine, del condimento per eccellenza della pizza.

Il passaggio del pomodoro dal giardino al forno avvenne con una naturalezza sorprendente. La prima fusione tra “pizza” e “pomodoro” è databile intorno alla metà del Settecento, quando i pizzaioli napoletani iniziarono a stendere il dolce succo del pomodoro sulle loro schiacciate, completando questa innovazione con un filo d’olio d’oliva e un pizzico di sale. Il risultato fu un’esplosione di sapori che rivoluzionò il concetto stesso di pizza, elevandola da cibo povero a prelibatezza degna della città, apprezzata dal popolo e dai nobili e divenendo, senza saperlo, il preludio alla pizza come la conosciamo oggi.

L’importanza di questa innovazione fu tale che, entro la fine del XVIII secolo, il termine “pizza” sembrò quasi diventare sinonimo della combinazione di pane e pomodoro, nonostante le numerose varianti continuassero a proliferare. Il pomodoro, così versatile e abbondante, trovò nelle umili mani dei pizzaioli napoletani il migliore interprete per esprimere il proprio potenziale, riuscendo a guadagnarsi la sua posizione centrale fino a diventare l’ingrediente chiave della “Margherita”, la pizza che sarebbe stata celebrata nei decenni a venire.

Quel piccolo ortaggio rosso della Nuova Spagna diede così alla pizza una dimensione di completezza, un tocco di acidità e dolcezza che bilancia la sapidità del formaggio e del basilico.

Dalle strade ai forni: la nascita delle pizzerie a Napoli

Oltre alla rivoluzione degli ingredienti e dei condimenti, c’è un altro passaggio cruciale nella storia della pizza. Tra il XVIII e il XIX secolo, infatti, quel semplice disco di pasta che inizialmente girava solo tra le mani dei napoletani più poveri, cotto alla meglio nei forni domestici e venduto per poche monete per le strade di Napoli, stava per “migrare” nelle prime pizzerie, veri e propri covi di sapienza popolare, dove il mestiere del pizzaiolo trovò la sua consacrazione.

La città era un amalgama di contraddizioni: da un lato, una classe alto-borghese e nobile che si avvolgeva nei fasti delle corti europee; dall’altro, un popolo che lottava ogni giorno per sopravvivere nelle strade strette e nei bassi affollati. Era tra queste luci e ombre che la pizza trovava il suo pubblico fedele. Per coloro che vivevano in condizioni difficili, con poche monete in tasca, la pizza rappresentava un pasto nutriente, economico e, soprattutto, accessibile. Ed è proprio in questo contesto che iniziarono a fiorire i primi locali commerciali interamente dedicati alla cottura della pizza.

Queste pizzerie nacquero come modesti forni aperti al pubblico, spesso poco più che botteghe affacciate sulla strada. Dalla prima luce dell’alba fino a tarda notte, i pizzaioli lavoravano senza sosta, producendo quantità vertiginose di pizze per sfamare interamente la città. La produzione era ciclica: le pizze venivano cotte rapidamente alla massima temperatura appena il forno raggiungeva il suo picco termico, e i “pizzaiuoli” con la loro inconfondibile maestria piegavano ogni fetta per inserirla nelle caratteristiche stufe di rame con cui i garzoni, chiamati “cavalieri”, trasportavano il bottino caldo per le vie di Napoli.

Le pizzerie diventarono presto un punto nevralgico della vita cittadina. Non erano solo luoghi di ristoro, ma anche centri sociali in cui i napoletani si riunivano e discutevano, e dove persino i nobili, attratti dall’odore invitante, iniziavano a fare occasionalmente capolino. Chi entrava in una pizzeria di Napoli non trovava un ristorante elegantemente addobbato, ma piuttosto un ambiente vivace e caotico. Vi erano i lunghi tavoli in legno dove i commensali condividevano il pasto, il calore del forno che irradiava la stanza, e il pizzaiolo, figura centrale ma umile, a dominare la scena con la sua destrezza e il suo savoir-faire. Era un rapporto simbiotico: Napoli faceva crescere le pizzerie e queste, a loro volta, rafforzavano l’identità della città.

Ma la popolarità della pizza non è stata sempre rosea, e proprio a Napoli, incredibilmente, il suo cammino non è stato privo di intoppi. Come ricordato in una tesi provocatoria e quasi iconoclasta presente nei recenti studi di Alberto Grandi e Daniele Soffiati, nel loro libro “La cucina italiana non esiste“, i napoletani non hanno sempre idolatrato la pizza come fanno oggi. Anzi, fino agli anni ’70 del Novecento, essa era disprezzata da alcuni, considerata sudicia e di scarsa qualità. Un alimento che, stando a Matilde Serao o a Carlo Collodi, “si brucia ma non si cuoce”, accumulando più disonori che elogi.

La Pizza Margherita: dalla corte reale al mito

Nonostante queste difficoltà e la pessima reputazione iniziale, la pizza non solo sopravvisse, ma prosperò, e la sua ascesa sarebbe stata consacrata dall’evento che avrebbe segnato la svolta definitiva: la creazione della Pizza Margherita, con tutte le sue luci ed ombre.

Non c’è racconto più radicato nell’immaginario collettivo di quello della pizza per eccellenza, una narrazione che unisce storia, gastronomia e patriottismo in un’intricata trama fatta di miti e realtà.

La data è l’11 giugno 1889 e il re Umberto I e la regina Margherita di Savoia sono in visita a Napoli. Raffaele Esposito ha da pochi mesi preso la gestione della pizzeria “Pietro… e Basta Così”, fondata nel 1760, che ha ribattezzato con il cognome della moglie, Maria Giovanna Brandi: proprio a lui viene affidato l’incarico di intrattenere e sfamare i reali alla reggia di Capodimonte. Esposito decide di preparare due pizze tradizionali per soddisfare il palato della Regina: la Mastunicola, con la sua base semplice di strutto, basilico e formaggio, e la Marinara, con pomodoro, aglio e origano. In più, inventa per l’occasione una pizza decorata con pomodoro, mozzarella e basilico, creando una sinfonia di colori che richiamavano il rosso, bianco e verde del tricolore italiano. La leggenda vuole che la Regina sia rimasta estasiata dal sapore e dal simbolismo patriottico di questa nuova creazione, tanto da inviare una lettera di ringraziamento a Esposito (e una copia della missiva è conservata con orgoglio ancora oggi nella Pizzeria Brandi, che è ancora in attività nonostante vari momenti di crisi).

Va segnalato che ci sono diverse interpretazioni e contestazioni riguardo alla veridicità storica degli eventi così come sono raccontati. Alcuni studiosi sostengono che l’invenzione della Pizza Margherita non sia attribuibile a un singolo evento o a una singola persona, ma sia piuttosto il risultato di un’evoluzione naturale delle pratiche culinarie napoletane. In molti, poi, mettono in discussione l’autenticità della lettera della Regina, sostenendo che potrebbe essere stata creata successivamente a titolo promozionale – sarebbe piuttosto un falso post-datato, probabilmente creato negli anni Trenta del Novecento per dare una veste ufficiale e regale a un piatto che il popolo aveva già abbracciato da tempo.

L’aneddoto della Pizza Margherita, sebbene affascinante, viene quindi ritenuto un’abile operazione di marketing anziché un evento storico vero e proprio. Nonostante queste ombre, però, questa storia continua a rappresentare qualcosa di più grande, un simbolo di unificazione per un popolo che, dopo l’unificazione nazionale, cercava la sua identità gastronomica tanto quanto quella politica. La combinazione di pomodoro, mozzarella e basilico non era unica nel panorama culinario napoletano; varianti simili erano già presenti, come attestato da diverse pubblicazioni dell’epoca. Ma l’abilità del marketing, forse inconsapevole, di Esposito e il momento storico in cui improntò la sua pizzaiola creazione, fecero sì che la Margherita diventasse molto più di un piatto tra tanti. Divenne un simbolo di appartenenza, di gusto semplice ma sofisticato, esportato dai migranti italiani nelle strade di qualsiasi grande città del mondo, da New York a Buenos Aires, portando con sé una parte di Napoli in ogni boccone.

La pizza a Napoli e le pizzerie che hanno fatto la storia

Abbiamo citato la Pizzeria Brandi che, pur non essendo più in auge come un tempo, continua a resistere e portare avanti la propria attività. E se di sicuro che Napoli è la città delle pizzerie, dove ogni quartiere ha il suo punto di riferimento speciale (e spesso, anzi, ci sono anche più pizzerie per quartiere), è vero anche che non tutte le pizzerie sono uguali, perché alcune di esse hanno raggiunto uno status di culto, diventando veri e propri simboli della tradizione e maestria nella preparazione della pizza.

Ad esempio, uno dei nomi presenti in ogni lista sulle migliori pizzerie cittadine è “L’Antica Pizzeria Da Michele“. Fondata nel 1870, questa pizzeria, con il suo menù straordinariamente ristretto (servono praticamente solo Margherita e Marinara) e il suo servizio spartano (tavoli condivisi, nessuna tovaglia, metodi sbrigativi), è diventata celebre persino oltreoceano, specialmente dopo la scena in “Mangia, Prega, Ama” con Julia Roberts. Da Michele è il tempio della semplicità, dove gli ingredienti base—pomodoro, mozzarella, basilico, e olio extravergine—si combinano per creare un’esperienza pura e memorabile.

Sempre a Napoli, “Pizzeria Starita” è un altro nome leggendario che oggi vive di grande fama. Fondata nel 1901, questa pizzeria ha mantenuto la sua reputazione per oltre un secolo grazie al suo impegno insaziabile verso la qualità e l’innovazione. Qui la tradizione incontra la creatività, con varianti come la celebre Montanara fritta passata al forno – così da ottenere il meglio dalle due cotture – che ha conquistato tanto i napoletani quanto i visitatori internazionali.

Spostandoci oltreoceano, “Lombardi’s” a New York è universalmente riconosciuta come la prima pizzeria degli Stati Uniti, aperta nel 1905 da Gennaro Lombardi. Questa pizzeria può essere considerata il luogo di nascita della pizza come la conosciamo oggi in America, dando il via alla tradizione italiana oltre Atlantico. Uno dei tratti distintivi è l’utilizzo del carbone nel forno, piuttosto che della legna, un adattamento al contesto urbano di New York che ha mantenuto l’anima italiana pur adattandola alle nuove circostanze.

La storia mondiale della pizza

Abbiamo appena citato gli Stati Uniti, ed è impossibile non approfondire il rapporto che c’è tra gli States e la pizza.

Come spesso accade con i fenomeni culturali di grande portata, la diffusione della pizza oltre i confini italiani fu il risultato di una combinazione di circostanze storiche, sociali e, non da ultimo, di una tenace volontà di preservare le proprie radici da parte degli italiani emigranti. Se la pizza, dalla sua nascita a Napoli, era già diventata un simbolo del Sud Italia, fu con le grandi migrazioni di inizio Novecento che iniziò il suo viaggio verso una fama mondiale, un percorso che l’avrebbe trasformata da cibo popolare locale a icona internazionale.

Gli italiani, in cerca di nuove opportunità, sbarcarono in massa proprio negli Stati Uniti, un Paese che allora rappresentava la promessa di un futuro migliore. Portando con sé valigie colme di speranza e tradizioni, introdussero nelle città americane i sapori della loro terra d’origine. Tra questi vi era, naturalmente, la pizza. Nelle strade affollate della Little Italy di New York, Chicago e altre metropoli, gli immigrati trasformarono il disco di pasta lievitata in un simbolo di identità culturale e integrazione sociale.

Ma la vera diffusione a livello globale avvenne nel corso del Secondo Dopoguerra. Con il mondo finalmente emergente dalle ombre del conflitto, l’Italia si trovò nel mezzo di un grande flusso di emigrazione interna, con molti meridionali che si spostavano verso le regioni industrializzate del Nord. Questa ondata migratoria portò con sé anche la pizza, che iniziò a diventare popolare non solo in città come Milano o Torino, ma anche in tutta Europa, muovendosi al ritmo della ricostruzione del continente.

Negli Stati Uniti, il dopoguerra rappresentò per la pizza un vero e proprio boom. Le immagini di soldati italoamericani di ritorno dall’Italia, racconti di esperienze culinarie interamente nuove, e l’inaugurazione di numerose pizzerie sia a gestione familiare sia in forma di catene, contribuirono a diffondere il mito della pizza in tutto il paese. Nascono così le prime catene commerciali di pizza, come Pizza Hut nel 1958, ispirata alle ricette e al business sviluppato dai pizzaioli italiani, ma adattata alle dimensioni, ai gusti e alle formule tipiche della ristorazione a stelle e strisce. Il “pezzo di cuore” napoletano divenne una gigantesca industria, generando varianti fortemente localizzate: ne sono esempi le pizze americane come la deep-dish di Chicago o le versioni più esotiche di pizze particolari ornate con ananas, peperoni verdi e altri ingredienti lontani dall’originale, che rappresentavano la capacità dell’alimento di adattarsi e innovarsi.

La pizza non ha però smesso di viaggiare, diventando un pilastro della cultura gastronomica anche in numerosi altri Paesi, durante le successive ondate migratorie del XX e XXI secolo in cui i moderni migranti italiani hanno portato il prodotto anche laddove esso era pressoché sconosciuto.

Uno dei Paesi che ha accolto con entusiasmo la pizza e l’ha trasformata in un vero e proprio culto è stata la Germania. Con l’arrivo dei lavoratori italiani negli anni ’50 e ’60, la pizza è diventata un cibo popolare in città come Stoccarda, Monaco e Berlino, evolvendo in versioni locali che combinano la tradizione italiana con ingredienti tedeschi. In Australia, la pizza ha raggiunto simili livelli di popolarità con le immigrazioni post-belliche, dove le pizzerie italiane hanno divenuto icone della cultura urbana, servendo da radice per una cucina “fusion” che incorpora sapori locali australiani come il canguro e il barramundi. Ma non finisce qui: il Giappone, noto per la sua cucina innovativa e raffinata, ha abbracciato la pizza e la ha reinterpretata con la tradizionale attenzione per la qualità degli ingredienti. Tokyo, in particolare, è oggi sede di pizzerie rinomate in cui si osserva una meticolosa attenzione per i dettagli, in un connubio perfetto tra la precisione giapponese e la tradizione italiana.

In tutti questi contesti, la pizza si è trasformata in un linguaggio gastronomico universale, capace di mutare pur mantenendo il suo nucleo originario. Gli ingredienti possono variare, le tecniche possono essere diverse, ma l’essenza resta immutata: un piatto che unisce, nutre e soddisfa, come già faceva secoli fa nelle strade di Napoli. Così, la pizza continua a ridefinirsi e a evolversi, ma sempre rimanendo fedele alle sue radici italiane, che l’hanno resa una componente indispensabile delle culture urbane in ogni angolo del globo.

L’universalità della pizza nel mondo contemporaneo

Se c’è un cibo che incarna l’idea di unione tra i popoli, di dialogo tra culture diverse e di globale apprezzamento, è proprio la pizza. Da piatto “povero” di Napoli, destinato per lo più a soddisfare i bisogni delle classi lavoratrici, la pizza si è elevata nel corso dei secoli a simbolo universale di condivisione e socialità, continuando a reinventarsi e adattarsi senza mai tradire le sue origini.

Oggi, la pizza è molto più di una semplice pietanza: è un rituale, un’occasione di incontro e di festeggiamento, un pasto che riunisce famiglie, amici e perfetti sconosciuti attorno a un tavolo o, talvolta, su un marciapiede qualunque. Che la si gusti in una trattoria napoletana con forno a legna, in un moderno ristorante gourmet a Tokyo, o come street food nelle metropoli africane, la pizza porta con sé il profumo dell’Italia, unendo i sapori della tradizione mediterranea con quelli delle cucine più disparate.

Nel corso dei decenni, si sono sviluppate innumerevoli varianti, ognuna delle quali ha cercato di rispettare o reinterpretare la tradizione secondo i gusti e le esigenze del pubblico locale. La pizza napoletana autentica resta al centro dell’attenzione, con il suo impasto soffice, il bordo rialzato e l’amorevole cura nella selezione degli ingredienti come la mozzarella di bufala e i pomodori San Marzano. Tuttavia, diversi stili regionali si sono affermati nel panorama mondiale. In Italia stessa, la pizza romana tonda si distingue per la sottigliezza e croccantezza dell’impasto, che contrasta nettamente con la morbidezza della napoletana. Negli Stati Uniti, la già menzionata pizza deep-dish di Chicago o la New York-style pizza narrano storie di adattamento e innovazione culinaria, con il tripudio del formaggio che diventa predominante, mentre altrove, in Canada o Australia, si sperimentano abbinamenti audaci come quelli con l’ananas o il prosciutto affumicato.

Ma la consacrazione della pizza non si ferma agli stili regionali. La modernità ha visto un’esplosione della cosiddetta “pizza gourmet,” dove l’impasto tradizionale si sposa con ingredienti ricercati e originali, dai sapori più complessi che vanno oltre l’immaginazione di coloro che, secoli fa, preparavano la “Mastunicola” nei vicoli di Napoli. Dai fichi caramellati alla bottarga, passando per il tartufo bianco, la fantasia dei pizzaioli contemporanei non conosce limiti, e i limiti della cucina tradizionale vengono costantemente sfidati e ridiscussi.

Nonostante questa continua evoluzione, il cuore pulsante della pizza resta fortemente radicato nella tradizione napoletana. Dal 2010 questo piatto è ufficialmente riconosciuta come Specialità tradizionale garantita (STG) dell’Unione europea e nel dicembre 2017 la fedeltà alla tradizione ha ricevuto il più alto riconoscimento a livello internazionale: l’arte del pizzaiuolo napoletano è stata dichiarata Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità dall’UNESCO. Questo riconoscimento non ha solo celebrato la pizza come prodotto, ma ha valorizzato la maestria, la dedizione e l’impegno quotidiano di generazioni di pizzaioli che, con le loro mani, hanno mantenuto viva una tradizione secolare. È il trionfo di una cultura che resiste alle pressioni della modernità globale, continuando a tramandare gesti e sapere come secoli fa, creando ogni giorno qualcosa di antico e, allo stesso tempo, sempre nuovo.

Con questo riconoscimento, Napoli non solo è stata incoronata capitale mondiale della pizza, ma ha dato voce a tutti quei pizzaioli sparsi per il mondo che, ogni giorno, presidiano forni e ingredienti, ricordandoci che la pizza, oltre a essere un cibo, è soprattutto una storia di passione e maestria senza tempo. Sta a noi, seduti davanti a un piatto fumante, comprendere e apprezzare tutta la complessità e il valore che questa semplice ma straordinaria creazione italiana racchiude in sé. Una creazione che continua a narrare una storia che dal passato ci guida verso il futuro, con ogni morso che, inevitabilmente, ci avvicina a un mondo più unito e più gustosamente condiviso.

Pizza e innovazione tecnologica: tradizione al passo con il futuro

Se la pizza ha saputo resistere ai secoli e ai cambiamenti sociali è anche grazie alla sua capacità unica di adattarsi alle innovazioni tecnologiche, senza mai perdere il suo fascino tradizionale. Dagli iniziali forni a legna che hanno plasmato il suo sapore intenso, la tecnologia ha svolto un ruolo fondamentale nel trasformare la pizza da piatto popolare a fenomeno globale. I cambiamenti più recenti, tuttavia, hanno portato a innovazioni ancora più profonde.

Uno degli sviluppi chiave è stato l’introduzione dei forni moderni. Utilizzati per adattarsi a grandi catene o per rendere più efficienti le pizzerie, questi forni utilizzano gas o elettricità al posto della tradizionale legna, permettendo un controllo più preciso della temperatura e dei tempi di cottura. Ciò non ha solo velocizzato la preparazione, ma ha anche reso più accessibile e standardizzata la produzione di pizza su scala industriale, ampliando ulteriormente la sua diffusione.

Accanto a queste innovazioni di cottura, la vita moderna ha visto un’impennata nella popolarità delle piattaforme di delivery, che uniscono il comfort della casa con il desiderio di cibo di qualità. Grazie a giganti globali del food delivery come Glovo, Deliveroo e Just Eat, la pizza è diventata uno dei cibi d’asporto preferiti in tutto il mondo. Questa rivoluzione ha trasformato la pizza in un cibo che può essere ordinato ovunque e in qualsiasi momento, esaltandola come simbolo della comodità e della modernità.

Un’altra conquista tecnologica significativa è rappresentata dalla pizza surgelata. Oggi, nel reparto congelati di qualsiasi supermercato globale, la pizza surgelata occupa un posto di rilievo grazie alla sua praticità e al miglioramento delle tecniche di surgelazione che ne preservano il sapore autentico. Marchi globali come Buitoni, Dr.Oetker o Nestlé, con la loro gamma di pizze surgelate, hanno permesso a milioni di persone di godere di una pizza di qualità senza dover uscire di casa o aspettare la consegna. Questa democratizzazione dell’accesso alla pizza ha contribuito ulteriormente alla sua espansione globale.

Presente e futuro della pizza: sostenibilità e creatività nel piatto

Ma la pizza è anche un ottimo banco di prova per l’innovazione e la riflessione su come la gastronomia possa abbracciare istanze di sostenibilità e attenzione per l’ambiente. Questo concetto ha portato alla creazione di nuove tendenze nel mondo culinario, che mescolano creatività, attenzione alla salute e cura del pianeta.

Il fenomeno della “pizza gourmet” è uno degli sviluppi più significativi nella scena gastronomica degli ultimi anni. Qui, i pizzaioli, elevati al rango di chef, sperimentano con ingredienti raffinati e inusuali, come tartufo, selezioni di salumi di eccellenza, e vegetali rari, creando un connubio di sapori che trasforma la pizza in un’esperienza culinaria d’alta classe. Questa tendenza ha anche spinto le pizzerie a diventare veri e propri “ristoranti di classe”, dove la cura per il dettaglio si riflette non solo nella qualità del cibo ma anche nell’ambiente circostante, nel servizio e nell’estetica delle presentazioni.

Parallelamente, la pizza si sta dimostrando un terreno fertile per le pratiche sostenibili. La crescente consapevolezza ecologica ha portato all’adozione di ingredienti a chilometro zero, promuovendo così produttori locali e abbattendo le emissioni di CO2 legate al trasporto. Questo approccio, che rispetta le stagionalità dei prodotti, si unisce all’uso di farine alternative che incontrano le esigenze moderne: farine integrali, biologiche, senza glutine, o iniziate da grani antichi stanno arricchendo gli impasti per migliorare il profilo nutrizionale della pizza, rendendola non solo gustosa ma anche sana.

L’attenzione all’ambiente ha trovato nuovi alleati anche nella gestione delle pizzerie stesse, che puntano alla riduzione degli sprechi alimentari, all’uso di energie rinnovabili, di incarti meno impattanti e a pratiche come il compostaggio per ridurre l’impatto ambientale. Questo impegno verso una pizza più sostenibile rappresenta una risposta concreta alle sfide ambientali della nostra epoca, dimostrando che anche un piatto semplice può interpretare un ruolo fondamentale nella costruzione di un futuro più verde.

La storia della pizza: miti, curiosità e leggende

La storia della pizza è così ricca di fascino e aneddoti che, nel corso dei secoli, ha accumulato un vasto repertorio di curiosità, leggende e miti che contribuiscono a rafforzare il suo status di simbolo non solo gastronomico, ma anche culturale. Così come ogni forno a legna porta con sé il proprio segreto per la cottura perfetta, anche la storia della pizza è un impasto di racconti misteriosi e talvolta incredibili che arricchiscono il significato di ogni fetta gustata.

Uno degli aneddoti più intriganti è il presunto legame della pizza con il mondo antico, addirittura romano. Recentemente, nel panorama archeologico, è emersa una scoperta intrigante a Pompei: un affresco raffigurante un piatto che, a prima vista, potrebbe sembrare una moderna pizza. Questo reperto, risalente al primo secolo dell’era volgare, ha fatto eco tra gli amanti della pizza e gli storici, portando molti a chiedersi se davvero gli antichi Romani potessero aver conosciuto una sorta di progenitrice della pizza moderna. Tuttavia, la realtà è un po’ diversa e meno poetica: quello che sembra una pizza nei dettagli fini dell’affresco pompeiano, è in realtà una focaccia riccamente condita, priva però degli ingredienti chiave della pizza moderna come conosciamo oggi, il pomodoro e la mozzarella, che sarebbero arrivati in Europa secoli dopo l’epoca romana. Mito o realtà, questa immagine pompeiana continua a stuzzicare l’immaginario collettivo, accendendo discussioni appassionate su quanto antiche siano effettivamente le origini di questa amata pietanza.

Restando in epoca moderna, la pizza a Napoli non è solo una delizia, ma anche un simbolo sociale, con espressioni e rituali unici che ne raccontano l’anima popolare. Forse molti di noi hanno sentito parlare della “pizza a portafoglio“: questa espressione non indica un tipo di pizza diversa, ma piuttosto un modo peculiare di consumarla. Una volta sfornata, la pizza viene piegata in quattro parti, come se fosse un “portafoglio” appunto, rendendola facile da mangiare anche camminando per le strade di Napoli. La pizza a portafoglio è la regina dello street food napoletano, rapida da consumare, poco costosa e sempre calda, un must per chi ama perdersi nei vicoli della città senza dimenticare il piacere di una buona pizza.

Un’altra espressione assolutamente tipica della cultura partenopea è la “pizza oggi a otto”. Questa frase fa riferimento a un’usanza storica con radici nell’atavica solidarietà dei napoletani: quando un cliente non aveva i soldi per pagare subito la pizza, poteva lasciarla “a credito” e pagarla dopo otto giorni. Il pizzaiolo, elemento base del tessuto sociale, manteneva così un rapporto di fiducia con i suoi avventori, garantendo loro la possibilità di mangiare anche quando non avevano contanti disponibili. Un’usanza che oggi continua a sopravvivere nella memoria e in quegli angoli della città dove la tradizione sfida il tempo.

Con l’evoluzione contemporanea, nuove forme di pizza hanno preso piede, trasformando le antiche tradizioni in vere e proprie tendenze del XXI secolo. La “pizza a canotto” è uno di questi esempi. Si tratta di una variante napoletana moderna, caratterizzata da un bordo alto, soffice e gonfio, sfruttando un impasto di alta idratazione e una lunga lievitazione che garantiscono una struttura leggera e ariosa. Questa tipologia di pizza ha conquistato negli ultimi anni un posto d’onore nelle pizzerie di Napoli e non solo, grazie alla sua consistenza estremamente morbida e una lavorazione artigianale che richiede tempo e passione.

Di pari passo con queste innovazioni locali, la cosiddetta “pizza gourmet” ha portato la pizza su un livello completamente nuovo. Questa non è solo una pizza, ma un vero e proprio piatto d’alta cucina, in cui la semplicità dell’impasto si sposa con ingredienti pregiati e raffinatissimi, come tartufi, pesce crudo, verdure croccanti o confetture artigianali. La pizza gourmet è un’avventura sensoriale, dove la tradizione lascia spazio alla creatività del pizzaiolo contemporaneo, che diventa quasi uno chef, unendo amore per le radici con il desiderio di sperimentare e sorprendere.

La pizza e l’arte: riferimenti e omaggi

Al di là del classico contesto culinario, la pizza ha lasciato il segno anche nel mondo dell’arte e della cultura contemporanea, diventando un soggetto simbolico e intellettuale versatile che ha attratto artisti, musicisti e designer in cerca di iconografia popolare.

La presenza della pizza non si ferma infatti ai piatti dei ristoranti o alle tavole famigliari, ma è diventata protagonista di scene cinematografiche memorabili. Chi può dimenticare la leggendaria scena del film “Mangia, prega, ama”, in cui Julia Roberts, nei panni di Elizabeth Gilbert, si innamora di una semplice pizza Margherita da “L’Antica Pizzeria da Michele” a Napoli, celebrando a suo modo la cucina italiana e la gioia del mangiare senza sensi di colpa? In pochi istanti, quel morso appassionato della protagonista ha consacrato la piccola pizzeria sulle rive del Mediterraneo a meta di pellegrinaggio gastronomico per un’intera generazione.

Persino nei cartoni animati la pizza ha trovato il suo posto, diventando uno degli elementi inscindibili della cultura pop. Un esempio iconico è quello delle “Ninja Turtles” (Tartarughe Ninja), i personaggi di fantasia che passano le loro notti a combattere il crimine nascosti nella metropolitana di New York, per poi rilassarsi mangiando enormi quantità di pizza insieme al loro maestro, il saggio Splinter.

L’influenza della pizza nella cultura pop non si ferma qui. Anzi, uno degli esempi più lampanti arriva dal mondo della musica, sia nella cover art degli album che nei testi musicali: il riferimento più diretto è “Fatte ‘na pizza” di Pino Daniele, dove l’alimento diventa il mezzo per criticare una società che si accontenta del minimo indispensabile e che, anziché affrontare problemi più grandi, si accontenta e si distrae con le sue tradizioni più stereotipate.

Nel mondo dell’arte contemporanea e del design, la pizza è anche usata per provocare, interpretando e reinterpretando il rapporto tra cibo e consumo. Installazioni d’arte che rappresentano pizza in forme surreali o ingigantite sono diventate ormai familiari in mostre che esplorano la società dei consumi e il kitsch moderno.

In un certo senso, la pizza nella cultura pop contemporanea non è solo un omaggio al gusto, ma un simbolo malleabile e plurivalente che riflette e definisce il nostro rapporto con la società, il cibo, e l’immagine collettiva. Così come sazia lo stomaco, la pizza stimola anche l’immaginario, diventando un metaforico prisma attraverso cui possiamo osservare la cultura globale in tutto il suo complesso sapore, partendo da una semplicissima composizione di lievito, acqua e farina.

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